Lavorare con L'aggressività

Lavorare con l’aggressività 

A volte la giornata parte male e capita di trovarsi nel traffico, prima, e in ufficio, poi, con il cattivo umore a farla da padrone…magari poi un collega ci dà una rispostaccia e noi che facciamo? Lo mangiamo vivo. 
Questo comportamento potrebbe essere definito da alcuni come “aggressivo”…ma cos'è l’aggressività? E, soprattutto, aggredire fa parte della nostra natura? Ha una qualche funzione particolare? Perché a volte siamo aggressivi? Scopriamolo! 

Innanzitutto l’aggressività, essendo un tratto caratteristico dell’essere umano, è stata studiata in numerosi campi, e consistenti sono gli studi anche in campo psicologico. Uno dei più importanti psicologi del ‘900, Sigmund Freud, diede una spiegazione legata all'istinto di morte, che esprimerebbe una tendenza universale verso il ritorno a uno stato precedente, privo di vita. Più in là, sempre lui avanzò l’idea che accanto alla pulsione sessuale, volta all'autoconservazione della specie, vi sia un altro gruppo di pulsioni, necessarie per la propria autoconservazione (pulsioni dell’IO), la cui mancata soddisfazione porterebbe a una reazione primordiale atta a difendersi. Questa seconda elaborazione è stata poi ripresa da Dollard (Dollard et al, 1939, citato in Berti & Bombi, 2005e dagli studiosi del comportamentismo, ai quali si deve la teoria della frustrazione-aggressività, secondo cui l’aggressione è determinata da un’intrusione che interferisce con la realizzazione di un obiettivo, che porta a conseguenti forme di aggressione. Queste teorie sono poi state revisionate nei decenni seguenti, attraverso gli studi di Berkowitz (1962) e Bandura (1963), secondo i quali i comportamenti aggressivi sarebbero mediati da processi emotivi di collera e risentimento che sorgono come prima risposta alla sensazione di frustrazione e, soprattuttoche questa frustrazione determini solo l’impulso ad agire, per portarci a mettere in atto comportamenti socialmente appresi (Bandura, Walters, 1963). Esemplificativo è l’esperimento della Bambola Bobonome dell’insieme degli studi condotti tra il 1961 e il 1963 da Albert Bandura riguardanti il comportamento dei bambini: dopo aver visto un adulto agire aggressivamente verso una bambola (chiamata Bobo, per l’appunto), era visibile come i piccoli spettatori tendessero a replicare gli atteggiamenti di aggressione visti poco prima. 
Riguardo alle possibili funzioni dell’aggressività, sono stati i sociobiologi e gli etologi a sottolineare la funzione adattiva dell’aggressione. Nel mondo animale, infatti, quelle che si possono delineare che “azioni aggressive” sono rivolte sia verso le prede che verso la propria specie, con la quale è fondamentale e necessario lottare per l’utilizzo o l’esclusività delle risorse. 
Ma allora perché adottiamo comportamenti aggressivi? Proprio questa domanda è il fulcro della “teoria dell’apprendimento sociale. Secondo questa teoria, che mette in evidenza quelli che sono i fattori ambientali che influenzano i comportamenti, l’aggressività e le sue manifestazioni sono frutto di condizioni come la frustrazione e, soprattutto, dell’esito di un processo di apprendimento. Essendo l’imitazione una delle modalità di apprendimento più utilizzate dai bambini, sarebbe sufficiente l’osservazione di un comportamento violento/aggressivo per ottenere una probabile messa in pratica successiva. 
L’ambiente di crescita, la cultura e i mezzi/stili di comunicazione ai quali le persone vengono esposte, quindi, possono influenzare il comportamento, rinforzando quotidianamente le manifestazioni aggressive. 




Per poter prevenire e/o contrastare i comportamenti definibili come “violenti”, dato che l’aggressività può manifestarsi in diverse modalità, pare necessaria l’adozione di alcuni criteri. Sebbene la questione sia ancora aperta, è possibile rispondere alla domanda: Quando un comportamento è definibile come aggressivo? In questo modo: 
  • - Danno; 
  • - Intenzione, come “comportamento volto a danneggiare o ferire una o più persone”. 
Questi due punti sono molto importanti, poiché permettono all'adulto (o caregiver) di orientarsi nella definizione di un comportamento e vanno, o andrebbero, quanto più possibile utilizzati assieme; è infatti semplice capire che non basta che ci sfugga di mano un vaso (quindi essere di fronte a un danno evidente), per fare di noi delle persone con comportamenti aggressivi. Allo stesso modo l’intenzione non è sempre facile da individuare, ed è quindi sicuramente un bene osservare e contestualizzare con attenzione i comportamenti. 

Ora che abbiamo capito di cosa parliamo quando ci riferiamo a un comportamento aggressivo, cercherò di introdurre il modo in cui esso si sviluppa. 
L’aggressività, o i suoi antecedenti, iniziano a mostrarsi nel momento in cui le manifestazioni di rabbia iniziano a distinguersi dalle altre emozioni negative e a essere utilizzate con un’effettiva funzione comunicativa, di solito entro il primo anno di vita. In seguito, i bambini cercano di trasformare i propri comportamenti aggressivi, indirizzandoli verso le altre persone (tirare i capelli) e, nel secondo anno, è possibile intravedere gesti nei confronti dei coetanei e proprio in questo caso iniziano a essere distinguibili differenti tipologie di comportamento aggressivo: 
  • Aggressione strumentale, riconducibile al desiderio di possesso, che punta a sovrastare chi si interpone a un intento personale; 
  • Aggressione ostile, il cui scopo è quello di recare deliberatamente un danno all'altro; 
  • Aggressione fisica, composta da gesti; 
  • Aggressione verbale, orientata a comportamenti di riorganizzazione sociale (ad.es. comportamenti di evitamento/esclusione); 
  • Aggressione reattiva, presente nella media fanciullezza (6-11 anni), dovuta alla percezione di eventi o azioni percepiti come attacco; 
  • Aggressione proattiva, dove è fortemente ritrovabile un uso pianificato della forza/azione lesiva in vista del raggiungimento di uno scopo (Price e Dodge, 1989; Coie et al. 1991 Cit. In Berti & Bombi, 2005). 
  • Aggressività diretta, agita esclusivamente sul piano fisico (conseguenza dell’aggressione fisica); 
  • Aggressività relazionale. 
Mentre, in funzione dell’aumentare dell’età, le forme di aggressività che si possono distinguere aumentano, è importante sottolineare come dovrebbe parallelamente diminuirne la frequenza; già alle elementari, infatti, un alunno è mediamente capace di contenere e mediare i propri impulsi aggressivi (tuttavia, essendo la media fanciullezza un periodo particolarmente delicato, è proprio qui che possono emergere problemi di condotta che possono essere seri e che vanno trattati da un esperto). 
A differenza dell’opinione comune, secondo la quale con la crescita i fenomeni aggressivi verrebbero automaticamente mitigati, è importante dire che l’aggressività è uno dei tratti più stabili della nostra personalità; da uno studio longitudinale condotto in Canada, Nuova Zelanda e USA, emerge come i ragazzi che durante la media fanciullezza si contraddistinguevano per un elevato livello di aggressività divenivano con buone probabilità degli adolescenti aggressivi (Tremblay, 2000 Cit. in Berti & Bombi, 2005) 


Il ruolo sociale dell’atteggiamento aggressivo nel conflitto e nelle competizioni 
Spesso ci troviamo di fronte all'utilizzo di due termini, conflitto e competizione, presentati in modo erroneo. Conviene quindi precisare il significato che assumono; sia i conflitti che le competizioni, infatti, possono implicare azioni aggressive, ma sono di fatto due distinte situazioni sociali 
  • L’aggressione è infatti un atto lesivo compiuto deliberatamente; 
  • Il conflitto interpersonale, invece, nasce da una situazione di opposizione/disaccordo, ma non necessariamente termina con esito negativo, soprattutto se gestito in maniera appropriata. 
Perché è così importante conoscere la dinamica del conflitto? Semplice: le modalità di ingaggio e di risoluzione seguono, secondo Carolyn Shantz (1985) delle precise tappe che, una volta conosciute, permettono di intervenire in modo efficace per ridurre le manifestazioni aggressive: 
  • Azione scatenante; 
  • Prima opposizione; 
  • Seconda opposizione. 
Al contrario di quanto si è soliti pensare, gli episodi conflittuali tra bambini non occupano che una piccolissima parte del tempo passato assieme, e raramente abbiamo situazioni che sfociano in comportamenti aggressivi. Già verso l’inizio dell’età scolare, poi, i bambini possiedono strategie di risoluzione del conflitto abbastanza efficaciInfine, nel corso della fanciullezza sono in grado di capire che un conflitto può essere interrotto sul nascere se la prima mossa oppositiva viene accompagnata da una controproposta. Che abilità è necessario acquisire per poter attuare un comportamento del genere? Sicuramente una discreta capacità di role-playing è importante, accompagnata anche da una buona competenza di elaborazione delle informazioni sociali e di contesto.  

E i comportamenti agonistici e di competizione? 
Nella vita dell’essere umano, spesso la dimensione agonistica assume un peso specifico non indifferente: la competizione infatti, anche a livello naturale, pare indispensabile per garantire la sopravvivenza a sé e ai propri discendenti. Nel mondo moderno, però, la competizione e il conseguente agonismo (der. di agone, sul modello del gr. agōnismós "lotta") sono controllati da regole, anche quando si compete attraverso l’uso della forza per sottomettere l’avversario. L’utilizzo delle regole fa parte della strategia cooperativa, in grado di mitigare la competizione stessa attraverso l’utilizzo di strategie di tipo sovraordinato, in grado da permettere l’intrecciarsi di cooperazione e competizione. Competizione e cooperazione, infatti, non vanno intese come due universi separati, ma come modi di agire che possono intrecciarsi e miscelarsi a seconda dei diversi fattori, anche storici e sociali. 
A livello di sviluppo è bene ricordare che al di sotto dei 6 anni è difficile che i bambini riescano a competere o gareggiare tra loro: questa difficoltà nasce dall'egocentrismo tipico di quell'età, che si pone come ostacolo nei riguardi della comprensione delle azioni degli altri. 



La relazione genitori-figli 
La relazione con le figure genitoriali, attraverso i M.O.I. (Modelli Operativi Interniovvero le rappresentazioni che il bambino ha di sé e dell’altro) esercita una funzione cruciale nello sviluppo relazionale e sociale del bambino. La particolarità di questa relazione è rintracciabile nella durata nel tempo e nella capacità di influenza permanente semi-permanente rispetto ad altre relazioni interpersonali, anche importanti, che intercorrono nella vita degli individui. Proprio dall'importanza che ricoprono le figure genitoriali ed il rapporto con esse arriva la nozione di base secondo la quale un attaccamento insicuro, che trova una delle sue caratteristiche principali nell'instabilità della relazione, favorisce i comportamenti violenti e la devianza sociale a causa dell’utilizzo frequente dell’aggressività come reazione di difesa, e come manifestazione di carenza di legami verso le istituzioni sociali e le figure di riferimento. In questo caso la paura e la sofferenza portano a utilizzare l’aggressività per distruggere una potenziale figura di riferimento, invece che avvicinarla, rendendo vendetta e punizione un obiettivo primario. 

E ora che abbiamo capito cos'è l’aggressività? Come possiamo lavorarci in modo efficace? 
Se c’è una cosa che ho imparato durante i miei anni da educatore, è che non esiste un modo facile per approcciarsi all'aggressività, e che non esiste un metodo che permetta di annullare i comportamenti aggressivi a  di magia. Le manifestazioni di insofferenza, l’alzare la voce o il mettere in pratica atteggiamenti provocatori infatti, anche nelle prime apparizioni, sono frutto di un lungo processo di maturazione e non appaiono senza dare segnali. Come comportarsi allora? 
Qui di seguito analizzerò due situazioni, due meccanismi, attraverso i quali l’aggressività può essere rinforzata o scoraggiata:  
  • Il ciclo di coercizione; 
  • Lo stile genitoriale.  

Il ciclo di coercizione 
Si tratta di un processo di azioni e reazioni in 4 fasi (o cicli) che vuole spiegare gli errori nell'interazione tra genitori e figli, e che si ritaglia un’importante ruolo nell'educazione.  
Come funziona esattamente? 

  1. La prima fase ha inizio con la richiesta del genitore (obbligare a mettere via del materiale/ studiare); 
  1. La fase successiva si costituisce con la risposta negativa del figlio (che reagisce in modo aggressivo, ad es. alzando la voce); 
  1. Il terzo passaggio è cruciale: nonostante le escalation ovvie del bambino, se il genitore cede e smette di pretendere l’obbedienza, il figlio non solo ottiene il risultato cercato ma, anzi, impara che agendo in modo aggressivo si ottengono dei risultati.  
  1. Questo è un tipico esempio di “rinforzo negativo”Sia il genitore che il figlio avranno infatti questo tipo di rinforzo: questo è il quarto passaggio, che fa ricominciare il ciclo e lo rinforza costantemente. 
La continua applicazione di una strategia che non tiene conto di questo ciclo fa sì che, nella scelta del modello da seguire per avere successo nell'interazione con la figura di riferimento (compiendo un gesto che verrà premiato o evitando il castigo-dovere per disobbedienza) sarà più spesso quello rinforzato ad avere la meglio. 
Un elemento che anche all'interno di questo ciclo non andrebbe dimenticato è l’importanza della coerenza e della non violenza. L’opposto, un’educazione incoerente e che prevede un uso eccessivo della forza (intesa come ordini senza motivo, enunciati in modo brusco, attraverso minacce anche fisiche) costituisce senza ombra di dubbio una scuola di aggressività, creando, oltre alla fisiologica imitazione dell’esempio, anche un sentimento di ribellione, che di certo non può portare a nulla di buono. 

Lo stile genitoriale 
Una premessa. 
Quando parliamo di educazione, è sempre bene avere chiaro in mente che questa è una materia che contiene numerosi studi scientifici, e che nel tempo sono stati molti i contributi che gli psicologi, gli educatori e i pedagogisti hanno offerto. Risulta quindi estremamente importante capire che, seppur non esista una regola universale e ogni caso dovrebbe essere valutato a sé, esistono delle correlazioni documentate. 

L’indagine sul modo in cui i genitori si cimentano nell’educazione dei loro figli e le conseguenze delle loro strategie sono stati per lungo tempo al centro dell’attenzione, e ci si è spesso posti l’obiettivo di catalogare lo stile/modo in cui i genitori si occupano dei figli (permettendo quindi di studiare le conseguenze di uno stile rispetto all'altro), per capire in che modo le relazioni familiari possono influenzare le emozioni nella vita di una persona. Ma iniziamo a capire come funzionano le cose. 

Quali sono gli stili genitoriali? Baumrind (Baumrind, 1991) sintetizzò il modo in cui i genitori si approcciavano ai figli in 3+1 categorie, ovvero: 
  • Autorevoli, coloro che forniscono regole chiare di comportamento, accompagnate da sostegno e attenzione ai bisogni profondi del bambino; 
  • Autoritari, che tendono a utilizzare il proprio potere in modo poco flessibile, anche adottando metodi disciplinari forti; 
  • Permissivi, in questo caso visti come troppo altalenanti, in quanto costantemente in bilico tra affetto e incoerenza; 
  • Trascuranti (con Maccoby e Martin, 1983), i quali fanno di tutto per minimizzare i costi in tempo/energie spesi per interagire con il figlio. 

Come risultato in termini di “traguardi educativi”, è possibile generalizzare dicendo che: 

  • I genitori con uno stile educativo autorevole ottengono di solito figli responsabili e dotati di un buon livello di autostima e di autonomia; 
  • I genitori con uno stile educativo autoritario hanno figli obbedienti, ma con uno scarso livello di autonomia; 
  • I genitori permissivi avranno, con buone probabilità, dei figli impulsivi, poco responsabili e con scarse capacità di autocontrollo. La trascuratezza, invece, si accoda alla permissività e comporta una bassa autostima, associata ad un preoccupante rischio di derive delinquenziali. 

Ora, è importante sottolineare come queste correlazioni siano importanti anche in vista del contesto; infatti, mentre Chen, Dong e Zhou (1997) riferivano che a dispetto delle giustificazioni alla rigida disciplina rintracciabili nell'etica confuciana (ritrovabile nelle famiglie originarie della Cina), i bambini educati con uno stile autoritario non risultavano particolarmente docili e competenti, gli studi sulle famiglie Afroamericane di Deater-Deckard e Dodge (1997) riscontravano che a seguito di un maggior grado di controllo si notavano maggiori competenze di tipo socio/cognitivo (questo probabilmente dato anche da una diversa connotazione culturale delle punizioni fisiche). 

Ora, abbiamo avuto modo di indagare l’aggressività passando per diversi campi (l’infanzia e gli stili genitoriali, l’etologia e la psicologia sociale), e ora che sappiamo grossomodo di cosa stiamo parlando, è tempo di individuare delle strategie di intervento. 
Ricordo che, per una buona riuscita degli esercizi, è opportuno armarsi di pazienza e ricordarsi sempre che, mentre le emozioni sono accettabili e naturali ed è normale/fisiologico provarle, le manifestazioni legate ad esse non sempre sono accettabili, ed è su questo che dobbiamo lavorare.         

                                             Reprimere le emozioni non fa bene! 
Ecco a voi alcuni esercizi Scaricabili qua, attraverso i quali potrete cominciare a conoscere la vostra aggressività e a mettervi in gioco...buon proseguimento! 












Bibliografia
Berti, E - Bombi, A.S (2005). Corso di psicologia dello sviluppo. Bologna: Il Mulino.
Grazzani, I (2009). Psicologia dello sviluppo emotivo. Bologna: Il Mulino.
Thalmann, Y.A (2013). Quaderno di esercizi per trasformare la propria collera in energia positiva. Milano: Antonio Vallardi Editore 
Zanobini, M - Usai, M.C (1995). Psicologia della disabilità e dei disturbi dello sviluppo. Milano: Franco Angeli

















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